Capitolo 43

I pensieri che durante il giorno domavo grazie ad una sorprendente forza di volontà,
come demoni, di notte, mi riportavano in un inferno.
“Non ho più speranze. Tutto questo è insopportabile. Questa non è più vita”.
Mi sentivo portare via dall’amore per il mio bambino. Sconvolta, mi opponevo.
Questo non volevo che succedesse, per nessun motivo, per niente al mondo. Non a me.
Non a me. Pregavo. Disperata. Non a me.

In balia di una sconcertante agitazione, non esistevano più parole di mio marito che mi potessero più trattenere.
Una notte ho vissuto l’angosciante esperienza di sentirmi uscire dal mio corpo. Un grido disperato che conteneva ogni preghiera che io conoscessi, mi ha riportata indietro.
Dopo qualche tempo la velocità di questa “giostra” mi ha resa irraggiungibile da chiunque. Mio marito mi ha vista scivolare via dal letto e decidere di uscire nel cuore della notte.
Da sola.
Lui doveva rimanere vicino al mio magico bambino.
Che non doveva vedere niente di questo.
Ho supposto che guidare mi avrebbe aiutata. L’avessi mai pensato. L’avessi mai fatto.
Ho trascorso ore in auto a correre a grande velocità. Come se guidare avesse portato anche il mio spirito da un’altra parte e quei momenti terribili, andando forte, sarebbero potuti finiti prima.
Prima di finire me.

Non sapevo più quale dei due casi mi auguravo si avverasse prima. Perchè adesso più pensavo a come ero ridotta e più pensavo che la mia famiglia e mio figlio non meritassero una cosa del genere.
La vergogna di avermi come moglie, mamma o figlia o nipote.
Ogni sera, il pensiero di affrontare la notte, mi accompagnava in un incubo ad occhi aperti. E allora uscivo. E pestavo sull’accelleratore.
Tremando e piangendo. Gridando.
Tanto nessuno mi sentiva. Nessuno avrebbe mai più potuto riportarmi indietro. A casa e a ciò che ero prima di crollare in questo stato.
Uno stato che non esisteva in nessuna mappa. Non su questa terra.

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